Descrizione
Nel gruppo giovane e chiassoso che presenta il lavoro finale del corso di fotografia non ti aspetti un tipo come Domenico: non invadente, perplesso che le sue foto possano destare qualcosa di più di un cortese interesse, quasi si giustifica per la sua presenza.
Il suo accento, pur vivendo da decenni a Brescia, tradisce senza vergogna le sue origini siciliane.
Ti racconta che non vedeva la festa di Santa Barbara a Paternò da più di vent’anni e ti chiedi, ascoltandolo, come si possa rimanere lontani per così tanto tempo dalla terra che ti ha visto nascere, e se la paura di rivedere quell’oblio da cui sei fuggito, possa veramente essere l’unica, così forte, ragione.
E invece la storia prosegue con la scoperta di una nuova realtà, i cerei e il fercolo di Santa Barbara freschi di nuovi colori, di stucchi restaurati, di cornici tirate a lucido.
La festa paragonata a un abito antico e smunto che lavato e stirato ha ripreso il suo colore, rivela l’amore e l’orgoglio di appartenere a quella terra dall’antica dignità. E le foto di Domenico raccontano di questa terra e di questa storia.
Dimenticando lentamente l’obbligo di testimoniare la rinata dignità, l’obiettivo della sua macchina fotografica si fa strada con difficoltà tra la gente e la processione: le sue foto diventano il racconto della fatica e del sudore della corsa e l’abilità dei suoi portatori di cerei; e ti rendi conto che i tuoi occhi da turista non avrebbero mai potuto cogliere questo miscuglio di fede e di sana rivalità perché a uno sguardo estraneo sembra solo folklore: bisogna averla vissuta fin da bambini questa realtà per capirla.
E nelle parole che accompagnano la sua storia Domenico sottolinea che qui a Paternò c’è una devozione diversa da altri luoghi, sanguigna, forse maniacale, ma solo perché loro, a Paternò, sono nati ai piedi dell’Etna e nelle loro vene scorre la rossa lava del vulcano.