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AA.VV.
A cura di: Pietro Arrigoni

Sèt gröste de formài

Sette croste di formaggio

10.00

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Prefazione: Pietro Arrigoni
Introduzione: Maurizio Bernardelli Curuz
Premessa: Maria Zanolli - Lino Magri
Formato: 192x300x6 mm - pp. 48 - illustrato colori - copertina semirigida e sovracoperta con alette lunghe
Edizione: 2010
ISBN: 978-88-8486-448-2
Product ID: 2599

Descrizione

Percepire il formaggio è faccenda che impegna tutti i sensi e desta l’attenzione. E a meritare tanto è un alimento semplice, nato dalla relazione dell’uomo con “l’animale da latte” e dalla pura casualità. Dobbiamo molta riconoscenza all’antico pastore distratto che dimenticò di consumare il latte appena munto o di conservarlo al fresco. Con il caldo, il latte si acidificò e si formò una bella cagliata…
Non interrogheremo qui la storia, ma l’estro e la naturale inclinazione umana al piacere. E senz’altro il formaggio ne può dispensare molto! Ingenuo o complesso che sia, il suo gusto non va scisso dalla fragranza, dall’aspetto, dal rumore che la lama produce incontrando consistenze diverse, all’impercettibile scivolio di quelle consistenze che aborrono la lama preferendo l’amorosa concavità del cucchiaio. Suggello ideale di un pasto, quando questo è stato buono e fantasma amico nelle mense derelitte, si pensi alle memorie (non rare) di chi s’è consolato, accanto al focolare, con la polenta e il “profumo” del cacio. Tempi eroici, di cui ci piace conservare lo spirito, e del formaggio non gettare nulla. Certo non le croste, leggendarie quanto il profumo e suggestive non meno.
Ci voleva un artista per comprendere un sentire che è a metà tra desiderio e memoria, ma non disdegna un presente in cui non è la sola fame a condurre le persone al cibo. È la fame corroborata e corretta dalla curiosità, dall’attitudine a leggere l’atto dell’assaporare e il suo oggetto, è l’istinto che si è preso il suo tempo e lo medita, con una golosità che non è urgenza. Ci voleva un artista per tradurre fasci disordinati di sensazioni, momenti isolati come coaguli, in un’opera che mi pare capace di narrare, passo passo, un amore versatile e poliedrico. Un omaggio al cacio che è però un omaggio al nostro modo di essere, al nostro modo di alimentarci e di punteggiare la trama della nostra esistenza di luoghi, di abitudini, di sapori che volentieri definiremmo “materni”.
Ci voleva Piero Tramonta, che generosamente ha aperto i cassetti dei suoi personali ricordi, sposando un progetto che si libra ora tra la fotografia, con una certa esattezza e verosimiglianza, e la ricerca, come a dire che il cibo è una primaria risorsa per il corpo ma che lo è ancor più per la crescita della persona in senso complessivo. E che non è l’ultimo dei criteri nell’individuazione di un’appartenenza, di una stretta connessione tra persone e territori.
Guardo le 7 “croste” cui Piero ha messo mano e rivedo persone, volti, colori: e se ne parliamo, ne parliamo all’infinito in viaggi pendolari tra quello che il piatto o la crosta offre e sogni e proiezioni correlate. Torno all’idea che il resto di formaggio abbandonato, la “crosta”, è qualcosa di più ricco di un rifiuto. Come in un calco, vi riposano i segni del nostro pasto e della soddisfazione che ha portato.
(Pietro Arrigoni – ideatore del progetto Sèt gröste de formài)