Descrizione
Queste pagine rappresentano la testimonianza diretta di Zaverio Gasparini e Carletto Murelli che ho raccolto dalla loro viva voce. Mio fratello Emo non ha mai voluto raccontare nulla della guerra e della prigionia, se non qualche sporadico episodio, magari in un pomeriggio d’autunno, dopo uno spiedo nella sua bella casa, innaffiato di forte vino siciliano. Diceva sempre: «Quello che è stato, è stato». Aveva rimosso i mesi terribili, perduti, della sua «meglio giovinezza» e non voleva rivangarli. Sia lui, sia Zaverio, come Carletto, avrebbero impiegato alcuni anni per riaversi da un’esperienza tanto alienante. Zaverio e Carletto tornarono pellegrini commossi, a El Alamein, Emo no: quel che era stato, era stato… E allora come sono giunto a ricostruire questi fatidici anni di prigionia?
La vita non di rado è bizzarra: giugno 1995, sono in crociera ai Caraibi. Sulla nave un signore, secco come corniolo, volto abbronzato, con una signora al fianco secca come lui, mi osserva con insistenza. Mi sento quasi a disagio, ma penso che possa confondermi con qualche altra persona di sua ormai sbiadita conoscenza o che io gli ricordi qualche cosa. In effetti: il signore, dopo avere esitato un po’, s’avvicina e chiede: «Ma lei è mica un Bonomi?». Trasalisco e con me mia moglie Emma. «Sì… mah». Lei è uguale a suo fratello Emo… stessi gesti, stessa voce, e anche la faccia…». «D’accordo, mah… mio fratello è morto nel gennaio del 1983…». «Lo so… io sono Zaverio Gasparini e sono stato compagno di prigionia di suo fratello in Africa». Guarda un po’ il destino, mi ero subito detto, anche perché la crociera non era stata preventivata, ma toccata a me perché il mio vice direttore, all’ultimo momento, aveva rinunciato. Per tutti i quindici giorni di vacanza… navale, Zaverio non aveva fatto altro che raccontare quanto qui è narrato. Un’epopea terribile e avvincente al contempo, bella dal punto di vista narrativo e dei risvolti umani. Alla fine, al momento di lasciarci a Brescia, provo a lanciare la proposta: «Senta Zaverio, perché non mi fa degli appunti che poi io racconto tutto in un libro?». «Ma no, sono vecchio, e poi aveva ragione Emo, quello è stato, è stato…».
Ci siamo lasciati, io con un pizzico d’amarognolo, lui col tarlo della proposta. Tre mesi dopo ero alla mia scrivania d’inviato del Giornale di Brescia, quando il fattorino mi avvisa che un signore desidera vedermi. Esco nell’atrio e trovo Zaverio Gasparini con un mano una cartella: “Ecco, questi sono gli appunti che mi aveva chiesto”. Quasi lo abbraccio, ma mi trattengo. Stringo il prezioso scritto, sto un po’ con Zaverio, lo saluto e, appena tornato alla scrivania, apro la cartella rigonfia d’un mazzetto di fogli a righe, formato protocollo, vergati con grafia chiara, ora minuta, ora più larga. Ne parlo col mio direttore d’allora, Giambattista Lanzani, e la prima idea è di raccontare il tutto a puntate sul giornale nostro. Così butto giù di getto una ventina di puntate, sempre in collegamento telefonico, all’occorrenza, con Zaverio Gasparini, per le necessarie delucidazioni e qualche particolare non chiaro. Zaverio viene a mancare che sono quasi alla fine del suo scritto, proprio al punto cruciale dell’incontro con Emo e Carletto. Sono bloccato. Mi dico che cercherò di pubblicare quello che posso.
Intanto trascorre il tempo, mesi, anni, e non se ne fa nulla. I venti capitoli rimangono lì. Un giorno, conversando con mia cognata Ines, ormai vedova di Emo, mi lamentavo del lavoro non finito, perché non avevo più il testimone diretto e non potevo dirimere certe parti del suo scritto che non mi apparivano del tutto chiare. «Ma guarda che è ancora vivo e vegeto Carletto – sbotta mia cognata – se vuoi lo faccio venire qui da noi e ti racconta tutto». Ciò che è avvenuto: Carletto, arzillo, lucidissimo, la voce tenorile per nulla incrinata dall’età maestosa, ha completato il racconto che ho registrato su nastro e poi, in un successivo incontro, ho chiarito con lui altri particolari di questa straordinaria storia di guerra e prigionia.
Così ho ripreso a scrivere l’epopea dei ragazzi della Folgore. Poi, altri volumi da scrivere, impegni vari, hanno fatto rimandare la fine della narrazione e anche mia cognata Ines se ne andata senza poter leggere nulla. Un rammarico grande. Ma ora tutto è compiuto. Carletto Murelli, anno 2012, è ancora un meraviglioso «diversamente giovane» di 91 anni, che partecipa alle manifestazioni patriottiche e combattentistiche, invitato di riguardo. Gli interminabili mesi di prigionia africana scolpiti dentro ed ora, grazie a lui e a Zaverio, divenuti memoria scritta da me trasudata con fedeltà, sicuramente anche con qualche imprecisione che nulla toglie alla pastosa sostanza del racconto. Memoria e monito. Sì, perché la guerra non fa bene a nessuno, nemmeno a chi la vince.
Egidio Bonomi